Vari motivi (e diverse riflessioni personali) per vedere al cinema il Maigret di Patrice Leconte

Vari motivi (e diverse riflessioni personali) per vedere al cinema il Maigret di Patrice Leconte

Quando frequentavo la scuola di cinema, mi recavo in sala per vedere la proiezione di un film almeno 2 volte alla settimana: al mercoledì con gli altri allievi dei corsi di produzione, ripresa ed edizione e al sabato, per conto mio. Parlo di sala perché all’epoca la cinematografia era ancora analogica ed i cosiddetti “multisala” non erano nemmeno stati progettati. Andare al cinema era un rito collettivo che poteva essere consumato anche singolarmente ed in ogni caso era un avvenimento e un’occasione stimolante, anche soltanto per uscire di casa e sprofondarsi in una poltrona al buio in mezzo a tanti sconosciuti e vedere la pellicola proiettata su uno schermo magari ampio 12 metri per 5.
Le alternative per guardare un buon lungometraggio erano: il film trasmesso al lunedì sera dal Primo Canale della Rai; oppure: inserire una videocassetta nel videoregistratore VHS, ma in entrambi i casi la qualità della visione era pessima e per nulla paragonabile a quella di una pellicola da 35mm proiettata al cinema.
Col tempo le differenze tra il piccolo schermo e il grande schermo si sono attenuate sempre più; il cinema ha finito per assomigliare alla televisione nei contenuti e nella serialità e la televisione ha mutuato tecnologie digitali sia nella ripresa, nel montaggio, nell’edizione e nella qualità generale del prodotto, per cui spesso ci accontentiamo di starcene appartati a casa nostra per fruire di un racconto audiovisivo che scegliamo tra una vastissima proposta tra le più svariate piattaforme commerciali e culturali che ormai intasano le nostre vite sempre più virtuali.
Vale ancora la pena di complicarsi la serata, o il pomeriggio, e andare a comprare il biglietto di uno spettacolo cinematografico per gustarsi una proiezione fuori dalla nostra comfort-zone casalinga?
Un mio amico un po’ particolare va al cinema tutti i giorni e vede anche più di un film al giorno; ha acquistato una tessera che gli permette di pagare il biglietto ridotto per le sale di proprietà dell’Anteo di Milano e con 5,50 vede i film come un pascià.
Alex, praticamente vede tutti i film che escono ogni stagione, ma lui è speciale, è un grosso appassionato. È nel settore cinematografico da una vita, si aggiorna su ogni novità tecnica e su ogni nuovo film che arriva in Italia. Si piazza nelle primissime file delle poltrone perché dice che da lì non si perde nessun dettaglio. Se chiedete alle maschere o alle cassiere dei cinema, lo conoscono tutti.

Per me che ormai vedo sì e no una decina di film all’anno direttamente al cinema, è diverso. Quando mi siedo in una sala pubblica non voglio sbagliare film e perciò quando esco pretendo di essere soddisfatto e di non rovinarmi poi il resto della giornata o della nottata ripensando a qualcosa che mi ha disturbato, non convinto o addirittura fatto arrabbiare.
In effetti, mi sono reso conto che col tempo mi sono in qualche modo ipersensibilizzato alle immagini in movimento, e non solo a quelle… Ho capito che fondamentalmente consumo molto meno racconti cinematografici, non solo per la facilità con cui adesso, nell’era digitale, si può accedere ad un prodotto di questo tipo, sia a pagamento che a scrocco, ma perché tutto ciò che ascolto o che vedo lascia un segno profondo nel mio stato d’animo, nei miei sentimenti e nel mio umore. Ogni esperienza cinematografica mi colpisce, parlo da spettatore, forse perché adesso siamo talmente tanto immersi in un mondo virtuale che la proiezione di un film non solo mi sembra che mi racconti una storia reale, ma la rappresenti al punto che tali eventi si siano notevolmente avvicinati ad una porzione della vita che vivo direttamente in prima persona. Voglio dire che se vedo un film che mi sconvolge, rimango sconvolto come se avessi vissuto quell’esperienza in prima persona o se l’avesse vissuta una persona a me cara, pertanto non sono disponibile a vivere storie brutte, insensate o che mi disturbano. La vita ovviamente è fatta di esperienze positive e negative, non si può scegliere e così si vivono entrambe.
Le esperienze negative ti segnano, ma ti formano e anche se ti possono far male, hanno un senso; quello che cerco di evitare sono le storie insulse che vivi senza un perché, per debolezza, per mancanza di passione, per errore, per indolenza o accidia. Non è bello ritrovarsi in queste situazioni perché poi la tua vita prende quella piega che noi tutti vorremo non prendesse, infatti ci riteniamo giustamente unici e pretendiamo di vivere qualcosa di interessante, magari di intenso, se non addirittura di magico o di particolare, inteso come “speciale” perché ognuno di noi si reputa tale.

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Gérard Depardieu è il Commissario Maigret scelto da Patrice Leconte per il suo ultimo bellissimo film

Adesso però è il momento di parlare di Maigret, il film che ho visto ieri e che vi consiglio caldamente, proprio perché penso possa soddisfare un pubblico colto e raffinato che vuole andare a colpo sicuro nella scelta di una proiezione in sala cinematografica.
Tratto dal romanzo di Georges Simenon: Maigret e la giovane morta (1954), il film di Patrice Leconte sceglie di raccontare la storia di un commissario della polizia molto umano che pur restando molto legato al suo compito di mettere in luce la verità e trovare un colpevole ad un apparente omicidio, sembra però essere più interessato a scoprire chi è la giovane ragazza trovata morta a Batignolles, nel XVII arrondissement.
La storia si sviluppa in una Parigi molto strana che a tratti mi ha fatto un po’ perdere il filo della trama delle vicende perché alcuni elementi scenografici mi distraevano e non erano congrui al periodo narrato. L’atmosfera generale è quella di un Noir; presumiamo di trovarci a metà degli anni ’50 del XX secolo, ma ci sono alcuni dettagli che ci mostrano anacronistici infissi di finestre in pvc (visti da lontano, ma si coglie comunque l’incongruenza); costumi di scena bellissimi, ma troppo nuovi, pavimentazioni che all’epoca dovevano essere nuove, troppo consumate e la stessa camera della vittima troppo curata nei dettagli, ma con elementi rifatti o artificialmente inseriti in un contesto che avrebbe potuto essere più vissuto… Insomma, normalmente non faccio così caso alla scenografia ed ai costumi, ma in questo caso sono rimasto abbastanza sorpreso di vedere una forte discontinuità temporale, come se si volesse appositamente destabilizzare lo spettatore, infatti in un paio di scene entriamo anche sul set di un ipotetico film in cui Jeanine Arménieu, interpretata da Mélanie Bernier era impegnata come attrice, in un gioco di scatole cinesi: un film nel film (un po’ come faceva Truffaut), metafora di una realtà imperscrutabile e fuggente.
Non ho apprezzato nemmeno la fotografia di Yves Angelo che a mio giudizio s’è dimostrata un po’ troppo minimalista. I volti degli attori erano troppo spesso sottoesposti, gli ambienti poco illuminati e i piani non molto definiti poiché attori vestiti di scuro, su fondali scuri e senza controluce si impastavano un po’ troppo. Stesso discorso per la camera che veniva mossa con assestamenti finali voluti che però, ancora una volta, tendono a distrarre l’attenzione di chi guarda lo schermo.

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Jade Labeste nel ruolo di Betty, la ragazza protetta da Maigret che con la sua presenza contribuirà a risolvere il caso.

Ottime invece le scelte del casting. Non solo Depardieu è un perfetto Commissario Maigret che non ci fa rimpiangere Jean Gabin; anche le giovani attrici Jade Labeste e Clara Antoons, così come la più esperta Aurore Clément, Elizabeth Bourgine, Anne Loiret, André Wilms, Hervé Pierre, ma anche coloro che sembrano avere ruoli minori e di fatto sono gli aiutanti del commissario, hanno tutti la faccia giusta e una grande abilità interpretativa.
Il film più che sulla sorpresa di trovare un colpevole ci racconta della vita di alcuni personaggi che rappresentano un interessante spaccato di un’epoca in cui la morale ed il senso comune del pudore erano molto diversi da quelli di oggi, ma tende anche a farci percorrere un percorso interiore per metterci in relazione con la nostra figura di figli o genitori e con il cambiamento che il tempo ha su di noi durante la nostra vita di uomini e donne. Ovviamente il personaggio più approfondito è quello di Maigret che viene visto come un funzionario a fine carriera, un po’ provato nel fisico e logorato da un lavoro straziante e doloroso, ma per nulla consumato nello spirito e nell’anima. Intuiamo da una moglie molto comprensiva e da una casa un po’ polverosa che qualcosa di drammatico sia capitato anche nella famiglia di questo poliziotto; infatti c’è una stanza vuota in cui Betty viene ospitata per una notte; ragazza che è quasi trattata come quella figlia che alla stessa età potrebbe aver subito una sorte simile a quella di Louise, la vittima.
Leconte dirige un film prettamente psicologico, ben sceneggiato e, tutto sommato, dalla giusta atmosfera, anche se certi dettagli ci lasciano un po’ perplessi, pensiamo volutamente.
Anche il fatto di non far mai togliere a Depardieu né il cappello (neppure al cinema), né il cappotto fanno pensare che il Commissario debba avere una sorta di corazza che tuttavia è possibile penetrare, non tanto a livello materiale, quanto in senso emozionale. Più volte infatti Maigret si allontana dai tentativi di approccio affettuosi tentati da Betty nei suoi confronti che probabilmente lo vede come una figura paterna, pur essendo più smaliziata della vittima a cui assomiglia, sia fisicamente, che come tipo di ragazza in cerca di fortuna nella grande città.
Un’altra chiave di lettura nel non abbandonare mai il cappotto potrebbe avere a che fare con la struttura corporea del grande attore francese; l’abito potrebbe essere servito a nascondere le forme molto abbondanti, ma questa è solo una speculazione estetica che probabilmente è lontana dagli intenti dell’autore.
Ho osservato che il pubblico in sala era tutto sulla cinquantina-sessantina, come età, ed è un peccato che un’audience più giovane non si avvicini a questo tipo di opere, perché questo film è veramente cinema, a differenza di tanti lavori che invece puntano tutto sulla spettacolarizzazione, la serialità o l’industrializzazione del processo produttivo cinematografico.
Volutamente non ho accennato alla trama che non è così importante, anche se effettivamente ci potrebbe essere un problema non da poco nella sceneggiatura che parla dell’impossibile omicidio di un cadavere già morto mostrandoci ferite e sangue in quantità, quando è del tutto inverosimile che un cadavere possa sanguinare in quel modo.
Film particolare, forse girato con un po’ di fretta o non con tutta quella cura che avrebbe meritato per poter diventare un vero cult negli anni a venire.
Altro punto oscuro è legato alla figura di Kaplan che ha avuto una figlia morta che aveva lo stesso nome della vittima che tra le sue cose aveva un biglietto da visita di questo vecchio ebreo fuori di senno. Qui ognuno può cimentarsi in qualsiasi tipo di ipotesi e darsi la risposta che vuole. Personalmente ho pensato che la vittima si sia data un nome di fantasia, ispirandosi alla figlia di Kaplan.
Ultimamente vedo solo film francesi, pertanto era abbastanza scontato che vi proponessi un film di questa nazione che ha dato al cinema grandissimi attori, registi e capolavori senza tempo. T. G.

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